Di mestiere faccio il titolare di una piccola società di comunicazione istituzionale e politica, quindi, legittimamente, potrei fregarmene di Chiara Ferragni. La crisi di reputazione che la coinvolge, però, è stata trattata finora con tanta improvvisazione metodologica che due parole mi sono sentito di scriverle anche io.
Il problema, se di problema si può parlare, è che branding e crisis management sono discipline molto rigorose, con basi tecniche fondamentali che oggi non vengono più trasferite da una generazione di operatori di comunicazione all’altra. Questa condivisione di conoscenza non si realizza più non soltanto all’interno dei corsi di studio dedicati (io mi sono stufato, dopo anni, di insegnare), ma neppure all’interno delle scuderie aziendali.
Provo quindi a offrire il mio contributo professionale attraverso qualche riflessione che magari non si legge sui giornali e che, al colpo d’occhio, non mi sembra neppure visibile nelle strategie di recovery in atto da parte di Ferragni.
Lo anticipo: è uno sforzo. Sia perché si tratta di cessione di un know how, seppure evocato brevemente e superficialmente, che oggi è in totale dismissione presso i colleghi, sia per la significativa, personale distanza che vivo rispetto al brand in questione. Capirete che dopo una vita lavorativa trascorsa nel mezzo di elezioni di Regioni e capoluoghi (qui trovate racconti più o meno datati delle campagne di Vincenzo De Luca, del primo Beppe Sala, di Eugenio Giani e anche del secondo Beppe Sala) e di progetti per istituzioni e grandi operatori della sanità, è davvero modesta la seduzione che può esercitare una marca commerciale.
In ogni caso, partiamo dalle basi metodologiche, che bastano e avanzano, provando a capire le principali tagliole nelle quali ha cacciato il piede la squadra di Ferragni.
Prima regola. Valutare i tratti d’immagine sui quali poggia il successo del brand e la loro decisività nella formazione dell’opinione.
Sono dati che Ferragni avrebbe dovuto acquisire con cadenza mensile attraverso analisi demoscopiche in tracking e non soltanto attraverso le -opache e arbitrarie- metriche social. Eppure, non sono sicuro che, sulle scrivanie dei suoi manager, ci siano 50 centimetri di report stampati.
Comunque, come possiamo definire il brand Chiara Ferragni? Un brand aspirazionale – valoriale? Di quelli che generano proiezioni positive nei sostenitori in virtù dell’associazione tra notorietà, human interest verso la persona e un po’ di valori alla spicciolata?
Sì, dai, facciamoci andare bene questa definizione. Del resto, il brand activism è esercitato con successo dai peggiori brand della moda e non solo (Lockheed Martin con la partecipazione al Pride, come da foto): funzionerà anche con una rappresentazione femminile dell’ideale della kalokagathìa, l’unità inscindibile tra piacevolezza estetica e qualità morali.
Insomma, se, come possiamo assumere, l’impero Ferragni si è poggiato fino a ieri sui pilastri della partecipazione emotiva, della compassione, della trasparenza, altro tratto indispensabile in un brand pubblico, allora il deterioramento associato all’affaire Balocco può creare un vuoto di sostegno pubblico enorme.
Basti pensare a come i vari Valentino Rossi se la sono cavata, nonostante casi di evasione fiscale eclatanti, senza un graffio: nessuno li giudicava per i loro valori civici. L’unica cosa che dovevano fare era andare veloci in moto, vincere, fare i simpatici sui media e con i fan. Non se lo sognavano neppure di imperniare la loro accettabilità pubblica sull’importanza di una dichiarazione onesta dei redditi.
E qui bisogna dirlo: se punti tutto sui valori e poi metti le mani nella marmellata, non sei esattamente il più furbo del circondario.
Seconda regola. Misurare la notorietà. Della vittima di crisi e dell’oggetto della crisi stessa. Quante -e quali- persone sanno di chi e di cosa si parla, per esempio, nel caso Balocco?
L’errore giù grave è credere che questa sia la dimensione primaria da considerare. Un passo che conduce a una gran quantità di false crisi (clienti che si agitano inutilmente per casi roboanti, ma che non scalfiscono i loro tratti d’immagine) o all’esplosione di quelle vere (comportamenti opportunistici che, se resi pubblici, possono determinare la fine della vita di una marca).
Eppure, questa variabile è la prima che si considera (l’estensione del buco) perché non si è praticato un corretto e assiduo assessment del peso dei tratti d’immagine nel corso del tempo. E perché reggere la pressione pubblica è faticoso: quando vivi di disintermediazione, ma, per onnipotenza, decidi anche di penetrare la sfera dei media tradizionali (andando a Sanremo), poi subisci la pressione congiunta di milioni di follower e di un sistema mediatico che volentieri ti farà la pelle. Per vendetta o, banalmente, per interesse giornalistico.
Questo produce un panico anti-strategico negli staff, ma ancora prima nei portavoce dei brand. Che, nel caso dei Ferragnez, sono i Ferragnez stessi. Vedono aprirsi una voragine sotto i loro piedi e, anziché pensare, agiscono.
Attività contro produttività.
Il buco si espande, tanto che la toppa non basta più.
Il video in tuta e con lo sguardo da vittima è un errore di calcolo gravissimo. Quello che sarebbe successo nei primi giorni dallo svelamento del problema era noto: Chiara Ferragni aveva già una notorietà che potremmo definire universale e le conversazioni online tra follower di varie gradazioni, allineati e non allineati, critici e dubbiosi, avrebbero senza dubbio prodotto il classico ‘blowing out of proportion’. Un’esplosione la cui estensione sarebbe stata incontrollabile. A quel punto, però, “stacce”, ti è scappata di mano.
Serviva un piano di gestione della crisi e di recupero del disastro. Prima. C’erano mesi, anni di tempo per stilarlo. Le variabili erano note, del resto: quando porti avanti operazioni di beneficenza che possono essere contestate, sai perfettamente che la stai facendo. E non sarai l’unica.
Terza regola (e chiudo, perché 60 minuti di lavoro su questa roba sono troppi). Il feedback.
Il dibattito che segue l’esplosione della crisi non è altro che il giro di ritorno dello stimolo di partenza, perché, ancorché passivo, l’erompere di una crisi è un atto di comunicazione del quale Ferragni è un mittente. Ed è infatti lei che subisce le reazioni del destinatario. È lei che deve esprimere un feedback ordinato e di adeguate proporzioni, nei tempi e nei modi corretti.
La follia infatti è stata tornare visibile, così a ridosso dell’innesco della crisi, con un video del quale sarebbe stata dibattuta pubblicamente ogni scelta.
Questa non è scienza missilistica: chiunque si sente in grado di parlare di trucco, di abbigliamento, di parole. E quindi chiunque lo farà.
E giù palate di carbone nella fornace della polemica, che, a questo punto, si sarebbe trascinata oltre il primo livello della notizia (la truffa, la multa).
Il video del 18 dicembre ha fatto ESPLODERE i volumi di ricerca Google. Diciamocelo: Chiara Ferragni non è mai stata un grande oggetto di intenzioni di ricerca, fino a Balocco. La polemica, così, anziché scemare, come sarebbe stato per esaurimento delle fonti di cronaca, si è risollevata:
Ci sarebbero molti altri punti di metodologia da toccare e verosimilmente un piccolo libro da scrivere, ma anche no. Che noia!
Certo, le domande restano. Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa dovrà fare Ferragni? È finita qui? (non credo, a giudicare dalla pioggia di beghe che le stanno cascando in capo).
Io ho le mie opinioni, perché da operatore (e docente, per diversi anni, di branding pubblico -poi mi sono scocciato-) non posso non averle, ma Chiara Ferragni ha sùbito ingaggiato, credo di aver letto, la società Community, quindi è giusto che siano loro a ragionare e produrre.
Una cosa è sicura: io non sarei mai intervenuto nella polemica sui mancati recapiti dei prodotti di e-commerce giustificando i ritardi con uno straordinario successo delle vendite, perché va bene difendere il bandwagon di un brand forte, va bene ostentare un successo inossidabile come supporting evidence dell’assenza di una crisi, va bene radicalizzare i tuoi sostenitori, ma, ancora una volta, qui sfugge la dimensione della polemica e sfuggono i tratti d’immagine indispensabili alla tenuta della marca. Che non sono la qualità dei prodotti o la tempestività delle consegne, evidentemente. Non esiste alcun baratto reputazione possibile tra il tratto della ‘performance’ e quello della ‘statura morale’. Anzi, più oggi si evidenzia la natura commerciale del brand Ferragni, più, parere mio, questo tenderà a soffrire.
Però, onestamente, credo di aver speso anche troppe energie per parlare di una delle tante marche, tra persone, aziende e nazioni, che non si fanno problemi a rafforzare la loro immagine pubblica facendo leva sui sentimenti umani più nobili come la compassione e la tolleranza.