LA SOSTANZA È TUTTO
Agli appassionati degli eventi di massa, delle convention americane. A chi si esalta quando Trump usa i Pokemon per attaccare Hillary. Ai fan delle risposte sbagliate degli avversari a falsi tweet e commenti. A voi, insomma, io lo devo dire: a Milano abbiamo vinto SENZA queste cose. A Milano non abbiamo raccolto attorno a un palco decine di migliaia di elettori e men che meno abbiamo riempito piazza Duomo. Ci siamo limitati a richiamare una base di 1.000/1.200 persone in pochi eventi e ci siamo preoccupati di mobilitare attivisti e simpatizzanti nelle operazioni di terra.
A Milano non abbiamo inventato video virali. Non siamo andati a caccia di like e condivisioni su scala nazionale. Non abbiamo disseminato di tagliole gli account degli avversari. Abbiamo invece rilanciato messaggi visivamente e contenutisticamente ricorrenti, targettizzando e re-targettizzando.
Così, mentre in altre parti d’Italia il centrosinistra incassava colpi più o meno letali, a Milano si conquistava una sudatissima vittoria contro l’uomo al quale Berlusconi ha appena assegnato la rinascita della propria area. Come?
Con una campagna dura e scientifica. Il che significa essenzialmente due cose:
1) un impiego accurato ed intensivo dei dati. Quelli anagrafici e di contatto raccolti dalla coalizione negli anni tra iniziative pubbliche e primarie. Quelli d’opinione emersi dalle ricerche. Quelli di tracciamento e profilazione sviluppati dalla campagna digitale.
2) un uso mirato di tutti i media disponibili (owned, earned, paid) per garantire al messaggio le essenziali caratteristiche di semplicità, rilevanza, ripetitività.
IL TEAM DI LAVORO
In questa campagna ho avuto una responsabilità e un onore determinanti: da fine febbraio al 19 giugno, ho lavorato come campaign manager e come field supervisor per il candidato sindaco, in una collaborazione stretta e proficua con l’agenzia SEC, oggi Spa quotata alla Borsa di Londra, che curava in particolare le media relations.
Ai tempi non avevo ancora fondato la società Momentum e il mio lavoro si collocava all’interno del contratto sottoscritto dagli amici dell’agenzia Quorum, che mi avevano ingaggiato precedentemente per le primarie milanesi di Pierfrancesco Majorino e, prima ancora, per la campagna vincente di Vincenzo De Luca (la racconto qui) come governatore della Campania.
PARTENDO DAI NUMERI: IL PRIMO TURNO
In quattro mesi ci sono finiti sotto al naso centinaia di numeri. Frutto di ricerche condotte da diversi istituti e quindi finalizzate essenzialmente alla misurazione delle dimensioni quantitative più classiche: notorietà, giudizio, agenda delle priorità, intenzioni di voto. Si tratta di numeri che placano o inaspriscono le ansie della politica, forniscono contenuto ai media per pezzi e servizi dedicati, ma che, per chi lavora sul campo, hanno spesso una limitata utilità.
I questionari sono scritti generalmente da ricercatori, non da consulenti, e l’assessment delle condizioni generali tende a essere la finalità prevalente.
Questo detto, possiamo però ben dire che l’insieme delle rilevazioni disponibili dall’autunno 2015 a partire da quelle condotte da Quorum, più orientate invece alla consulenza, non lasciava incertezze su almeno quattro grandi argomenti di posizionamento.
FILE #1: Giuliano Pisapia. Fuori da qualunque considerazione di merito, il sindaco riscontrava una valutazione molto disomogenea tra cittadini di centrosinistra (in gran parte benevolenti) ed elettorato generale (in maggioranza critico), presso il quale, in termini di giudizio, veniva superato dall’amministrazione milanese in senso lato, e cioè dal complesso delle politiche e dei servizi messi a disposizione dall’Ente.
Dal punto di vista del branding, stare vicino al Sindaco, rappresentarsi o esser rappresentati come la prosecuzione di Pisapia, significava esporsi a un rischio d’opinione e caricarsi di una continuità con il passato che lo stesso centrosinistra non chiedeva. Già perché, rilevazioni alla mano, gli stessi che si esprimevano in favore di un mantenimento della traiettoria impostata tra 2011 e 2016, auspicavano, nelle risposte multiple alla stessa domanda, anche un cambio di passo per i cinque anni a venire. Aggiungo: i flussi del 5 giugno e il voto alla lista a lui ispirata, Sinistra x Milano (3,83%, nonostante la batteria di candidati consiglieri di qualità), costituivano una prova della fisiologica evaporazione della leadership di Pisapia. Tanto che al primo turno il sindaco uscente riusciva a mobilitare sul candidato in pectore solo il 48% dei propri elettori 2011.
Il brand Pisapia stava subendo un normale processo di erosione: non erano più chiari i selling points e la sua capacità di rispettare l’impegno preso (to be delivering on the promise, ndr) era stata messa in discussione, prima, dalla scelta di ritirarsi dal ruolo di candidato sindaco, poi da quella di non rispettare la posizione di arbitro imparziale delle primarie che lui stesso si era attribuito suo tempore.
FILE #2: Matteo Renzi. Il giudizio in calo, la fiducia oscillatoria e la scelta di lavorare a una polarizzazione personale con il Movimento 5 Stelle (ricordiamo l’hashtag #beppebugiardo contro Grillo a ridosso del primo turno) facevano del premier un figura alla quale associarsi con attenzione. Questo, nella stessa Milano che due anni prima consegnava al solo PD di Renzi oltre 247.000 voti per un 45% secco alle Europee.
Conservare un’indipendenza dell’agenda milanese da quella romana era, per noi operatori, essenziale per non ritrovarsi al ballottaggio con il M5S e il centrodestra uniti nell’intento di trasformare la città in una piazza di scontro nazionale per mandare a casa l’ex-sindaco di Firenze.
FILE #3: Expo. L’Esposizione è stata un territorio di confronto tecnico di comunicazione molto acceso. Apprezzata dalla larga maggioranza dei Milanesi, ormai superata nei suoi effetti benefici per oltre 1 cittadino su 3, osteggiata da una frazione di elettori spesso pentastellati, territorio di ambiguità d’opinione a causa delle polemiche su visite e conti: per una parte del comitato, Expo costituiva comunque il principale fattore di eleggibilità di Sala, mentre per noi soprattutto un fattore di affidabilità circa la capacità di Beppe di portare a casa risultati importanti. La nostra lettura, verificata poi con una ricerca d’opinione a inizio ballottaggio, era che Expo generasse livelli alti e trasversali di fiducia, ma non traducibili direttamente in voti: quell’esperienza biografica del candidato non poteva soddisfare il bisogno dell’elettore di una piattaforma ideologica e di una batteria di proposte amministrative.
Sul tema del rapporto tra accountability ed electability ricordo le parole dell’amico David Hunter, che è poi il senior campaign manager internazionale del Messina Group, che è poi la società di consulenza fondata da Jim Messina:
“Successful candidates need a compelling life story. But you have to link it to what they will do to make the lives of voters better.”
Nei comitati delle campagne maggiori le differenze di visione sono all’ordine del giorno e con Expo si trattava di trovare una mediazione tecnica che permettesse di procedere senza conflittualità e senza danni alla campagna. Lo stesso processo praticato per il rapporto con Pisapia e quello con Renzi. Operativamente si è quindi lavorato a quattro passaggi che restituissero all’Esposizione il suo valore senza trasformarla nella parte per il tutto del candidato Sala:
1) richiamare Expo nella grafica di campagna attraverso un’evoluzione del logo precedentemente adottato dal comitato Sala alle Primarie.
Quello che ne esce è un risultato award winning in tutti i sensi: si conquisterà infatti il primo premio della Giuria tecnica del Galà della Politica 2016.
2) affermare una volta per tutte i volumi del suo successo in un materiale da incasellamento con il quale raggiungere tutte le 651.000 buche delle lettere milanesi.
3) rinsaldare il legame affettivo con la comunità dei grandi frequentatori di Expo attraverso un video da fare circolare sui social media a un anno dall’inaugurazione.
4) utilizzare al ballottaggio la presa popolare e trasversale dell’Esposizione, così da smobilitare parte del possibile voto contro (contro Renzi, contro Pisapia), attraverso uno spot mandato in onda esclusivamente sulle due maggiori tv regionali. Si trattava di emittenti con pubblico di età avanzata, quello cioè storicamente più propenso al voto di secondo turno e, nostri numeri alla mano, meno favorevole al nostro candidato.
FILE #4: notorietà. Fin dal 10 febbraio c’è sempre stato almeno un fattore quantitativo di differenziazione tra Sala e il suo avversario diretto Stefano Parisi: la notorietà. Una notorietà che non per forza giocava strettamente a favore di Beppe, si pensi alle polemiche su Expo, ma che certamente facilitava il processo cognitivo di individuazione del candidato sindaco da parte di un elettorato impigrito e disponibile all’astensione. Sul primo turno nessun dubbio quindi:
1) meno confronti pubblici possibile con l’avversario diretto per non essere catalizzatori involontari della sua riconoscibilità.
2) un lavoro iniziale assiduo di accrescimento dell’awareness attraverso una campagna di affissioni robusta, outdoor e in metropolitana, per colmare quegli ultimi 10 punti di notorietà e rendere a tutti gli effetti Beppe un candidato sindaco per il 100% circa dei Milanesi.
CHI VINCE LO DECIDONO I TARGET
Diciamo anzitutto una cosa: il merito di questa vittoria spetta a Beppe Sala e non c’è alcuna melensa piega affettiva in questa considerazione. In campagna l’unica cosa che conta è la rispondenza del brand del candidato con il maggior numero possibile di elettori appartenenti ai target utili a vincere e, se Beppe non fosse stato capace di interpretare, in parte o in toto, i bisogni di questi pubblici, allora oggi il sindaco di Milano si chiamerebbe Stefano Parisi.
Con un giudizio ridotto all’osso, potremmo dire che la campagna di primo turno è stata sviluppata su due livelli semantici apparentemente disomogenei:
1) il livello del buon senso manageriale del Sala che vota al referendum trivelle alla faccia dei diktat nazionali. Del Sala che mostra una dichiarata ostilità tanto alle esacerbazioni leghiste quanto alle “facce inquietanti” della vecchia politica (La Russa, la Gelmini, Formigoni). Del Sala che dice sì alla moschea perché “meglio in un luogo di culto conosciuto che negli scantinati“. Tutto questo diventa indispensabile per far affiorare un collegamento efficace con target non scontati, di stampo moderato (un 20% di elettori 2011 della Moratti e un 40% di ex-Palmeri, stando ai flussi).
2) il livello della vicinanza sincera (e confermo sincera, autentica) all’eredità positiva di quel centrosinistra-sinistra milanese che si sarebbe presentato con maggiore titubanza al primo turno (un terzo del voto di Pisapia 2011 in astensione il 5 giugno!), ma sarebbe poi stato essenziale al ballottaggio.
Si è trattato di un lavoro complesso nella sua restituzione all’esterno, ma tanto efficace sui target, quanto spontaneo per il candidato: quello in scena era (ed è) esattamente Beppe Sala, un uomo orgoglioso e di esperienza, dotato di una gamma ampia di opinioni non comuni, estraneo alla politica e al discorso politico, e quindi genuino nell’espressione, capace di infuriarsi per l’inciviltà delle contestazioni, ma non per la sostanza, appassionato delle chiacchiere al mercato e delle risate dei bambini ben più che dei salotti e dei convegni.
GET OUT THE VOTE! IL BALLOTTAGGIO
Il primo turno finisce, per noi, con un vantaggio di 4.900 voti su quasi 1.000.000 di elettori.
Non solo: la miscela instabile di consenso che ci aveva portati fino a quel punto non poteva essere conservata tal quale al ballottaggio, dove dominano le dinamiche di voto contro: bisognava ragionare per grandi target di prossimità, per dimensione dei bacini e propensione al voto, quindi convincere l’elettorato PD non solo a tornare alle urne, ma a mobilitare gli incerti, e lavorare sui driver motivazionali della sinistra.
In altre parole, pallottoliere alla mano, serviva il consenso di core voters e leaners di prima cerchia, con la consapevolezza che, allo spostamento dell’asse della comunicazione verso sinistra, sarebbe corrisposta un’erosione del patrimonio moderato di primo turno, già potenzialmente sedotto dal risultato inatteso di Parisi.
Era necessario inasprire i toni e guidare, oltre alla valorizzazione delle proposte, anche un’operazione di pinning che portasse alla luce gli eccessi di chi si muoveva all’ombra del candidato di centrodestra: la stessa Lega del Salvini nazionale, quella che aveva candidato e fatto eleggere un neofascista al Municipio 8. E poi ancora La Russa, Formigoni, la Gelmini, Berlusconi. E ricordare che il nuovo Parisi aveva scelto, da subito, la retorica amministrativa del passato, degli anni ’90 di Albertini ed Ecopass.
La macchina del GOTV viene preparata qualche giorno prima del 5 giugno. Il materiale di partenza prevede ben tre livelli di small data:
1) una rilevazione quantitativa CATI-CAMI condotta nella giornata di lunedì, subito dopo il voto, attraverso un questionario specifico per la misurazione di un numero definito di driver di consenso e dissenso verso Sala e Parisi, che ci permettesse di mettere a contrasto i punti di forza di Sala con quelli di fragilità di Parisi e del centrodestra più in generale.
2) la mappatura geografica delle sezioni per divario Sala/Parisi, un piccolo capolavoro di Antonio, così da riconoscere a livello visivo eventuali pattern come la mixité etnica, la presenza di servizi, la perifericità fisica, che sarebbero altrimenti sfuggiti alla semplice lettura delle matrici di dati.
3) l’individuazione dei cluster di sezioni che presentavano il delta più marcato tra voto Pisapia 2011 e Sala 2016, in modo da isolare specifiche aree territoriali a livello di agglomerati di numeri civici dove concentrare gli sforzi di comunicazione.
A questa batteria, assolutamente unica, di elementi analitici si aggiunge la forza dei database: quello più ricco e recente delle primarie di febbraio e quello ben più ampio, ma meno ordinato, dei contatti raccolti nell’arco degli anni, per un totale di oltre 100.000 nominativi associati ad indirizzi fisici. Entrambi i set di dati ci hanno permesso di raggiungere direttamente nelle case e con strumenti imperniati sul principio di comparazione uno straordinario insieme di elettori più probabilmente orientati a un voto di centrosinistra.
Altro? Certo. Le caselle postali dei Milanesi. Ma tutte. Raggiunte questa volta attraverso un operatore specializzato nell’incasellamento che è riuscito a garantire ai nostri strumenti, al nostro messaggio (parola chiave: FUTURO) una copertura senza precedenti del 90% circa. Su un pubblico così esteso, e quindi per buona parte distante od ostile, una comunicazione generalista positiva, priva di comparazione, e tre grandi elementi programmatici veicolati su di una strip dal formato non canonico.
Altro ancora? Ovviamente, il broadcast. Con un vantaggio sotto il punto percentuale, Beppe doveva spendere, come già fece Obama contro Romney, una parte importante del tempo televisivo e radiofonico che trascorreva con Parisi a riportare l’avversario puntualmente sulle sue incongruenze di politico moderato che, in caso di elezione, avrebbe dovuto render conto di ogni scelta al suo bedfellow Matteo Salvini.
Ma non finisce qui, perché non esiste GOTV senza una phone bank. E noi, nell’open space del comitato, ne abbiamo messa in piedi una con 22 postazioni che in 10 giorni sono riuscite a macinare tutti e 30.000 i contatti telefonici lasciati dagli elettori delle primarie. L’obiettivo? Motivarli non soltanto alle urne del 19 giugno, ma soprattutto a smuovere il maggior numero di voti possibile.
Avviate ufficialmente le chiamate, ai cordless si sono presentati volontari, simpatizzanti, attivisti, candidati eletti e non eletti che non hanno fatto altro che telefonare da mattina a sera fino all’ultimo giorno concesso dalla legge.
SE MAJORINO COLPISCE ANCHE AL BALLOTTAGGIO
Un ultimo passaggio divertente? A 4 giorni dal voto abbiamo deciso di spedire a tutto l’indirizzario del comitato una e-mail firmata da Pierfrancesco Majorino, la grande nemesi di Parisi. Una mail cattivissima.
L’A/B Test era stato condotto su due oggetti, uno più immoderato dell’altro, e nel corpo si facevano essenzialmente due cose:
1) prefigurare uno scenario (non irrealistico) nel quale l’accoglienza dei profughi bambini sarebbe finita in mano a Salvini e De Corato.
2) chiedere soldi (i fatidici 7 euro) per gli ultimi colpi della campagna.
Come il messaggio raggiunge le caselle di posta elettronica, la reazione dei destinatari rende terribilmente evidente l’adeguatezza della strategia impostata al ballottaggio: alcuni moderati scrivono mail e post Facebook di protesta per lamentarsi dei toni inadeguati o invitare all’astensione, se non al voto per l’avversario, mentre numerosi elettori si presentano al comitato, soldi alla mano e pronti a mettersi a disposizione.
Va detto: per me non è stata affatto una decisione semplice. I rischi erano noti e alcune risposte alla mail non semplici da digerire. Il management comporta spesso l’assunzione di responsabilità rispetto a scelte tattiche estreme, assunte nel caos di un comitato sovrappopolato, dopo mesi senza riposo e la consapevolezza che, quando si armeggia con un database da 50/60.000 contatti, un errore può generare effetti a catena capaci di orientare il voto di migliaia di elettori verso l’astensione, il voto avverso, la campagna contro. Non è accaduto: la scommessa è stata vincente e questo passaggio di fundraising digitale ha generato la raccolta più rapida e sostanziosa dell’intera campagna.
E PARISI?
Sono un professionista, che ha lavorato per entrambi gli schieramenti politici, e che quindi non ha problemi a fare i complimenti agli avversari: Stefano Parisi ha fatto tutto bene fino al ballottaggio. Anzi, direi che ha fatto tutto in vista del ballottaggio, incluso, assumo, un robusto risparmio di risorse che sono poi state iniettate nel secondo turno. Ha lavorato incessantemente per rassicurare l’elettorato di centrosinistra sul fatto che, in caso di sua vittoria, non ci sarebbe stata alcuna reale piega verso destra. Ha battibeccato con la Lega. Ha ironizzato sul fatto di essere “più a sinistra di Sala“, sulla propria laicità ideologica. Ha manifestato aperture sull’edificazione di una moschea e perfino rimproverato Beppe su quanto eccessivamente materiali fossero le sue considerazioni in merito. Si è inventato il progetto di una circle line di trasporto pubblico per alleggerire la congestione del traffico urbano, così da posizionarsi sul grande tema tutto milanese dell’inquinamento atmosferico.
E ha creato un messaggio comprensibile e scelto una grammatica visiva semplice, che garantiva riconoscibilità e leggibilità.
Non finisce qui. Ha bacchettato senza violenza il sindaco uscente (“Dico solo che su certe cose Pisapia ha un po’ dormito“, chiosava durante un dibattito), ben consapevole del fatto che il primo cittadino fosse un potente fattore di dissenso per il centrodestra, ma al contempo un riferimento simbolico per la sinistra istituzionale, che bisognava lasciare a casa e non certo stuzzicare al voto di primo turno.
Questo gli ha permesso di superare la soglia critica del 40%, un risultato che nessun istituto di ricerca gli consegnava, e che, combinato al divario minimo, lo rendeva un underdog assolutamente perfetto nel confronto con il topdog designato Sala.
Non solo: in presenza di un indice winner (la probabilità che vinca un candidato piuttosto che il suo avversario, secondo gli elettori, ndr) che premiava stabilmente e nettamente l’uomo del centrosinistra, il risultato di Parisi al turno del 5 giugno appariva ancora più inatteso ed entusiasmante per lo schieramento di centrodestra e permetteva al candidato di ribattere così al sarcasmo del premier, che aveva definito la partita di Milano come un calcio di rigore: “Caro Matteo Renzi, il calcio di rigore lo abbiamo parato. Adesso però tocca a noi tirare“.
L’effetto underdog in favore del candidato di centrodestra è empiricamente misurabile attraverso i flussi del ballottaggio, che raffigurano una fuga dell’8% dell’elettorato di primo turno di Sala verso Parisi.
Elettori indipendenti che, in parte, si erano allontanati da una campagna di rimobilitazione ideologica molto puntata a sinistra, ma che per la stragrande maggioranza avevano deciso di scommettere sul recupero e la vittoria del candidato di centrodestra.
Poi è iniziato il secondo turno e sono arrivati i primi errori di Stefano Parisi, il quale ha voluto procedere con una comunicazione molto simile a quella di primo round. La concentrazione di risorse, pur saggiamente progettata, si è infatti tradotta in un campagna di consolidamento che sembrava non prendere in considerazione le dinamiche di voto contro dominanti nei ballottaggi.
Senza fare la cosa sgradevole di ficcare il naso negli affari del team che lo ha seguito, al quale vanno appunto i miei complimenti, ci sono alcuni aspetti che mi spiego poco del Parisi post 5 giugno:
1) fuori da considerazioni moralistiche sul garbo della campagna, che poco si addicono a chi sta lì per vincere e non per dare prova di bon ton, mi domando perché non spostare l’asse della competizione su Roma quando la prossimità Renzi/Sala sarebbe stato il più efficace attivatore di voto contro disponibile? Le critiche, anche forti, di Parisi al premier non sono certo mancate in campagna, quindi perché non aumentarle di grado e richiamare quel 60-70% di elettori critici inquadrando la vittoria a Milano come la più importante opportunità di far capitolare il Governo?
2) E ancora, perché non insistere in modo diapasonico sulla rappresentazione di una continuità assoluta con Giuliano Pisapia, che era un altro fattore di voto contro per una parte importante di elettorato e che in più occasioni simboliche aveva offerto dimostrazioni di patronage verso Sala, dalla vendita al candidato sindaco dei suoi calzini rossi portafortuna (per Euro 500,00, ndr) al dono della sua cravatta proprio in chiusura di campagna?
3) perché minare solo al secondo turno uno dei capitali di accountability di Sala ossia Expo (“Non è stata una cosa complicatissima: è bastato preparare due capannoni per una data“, cit.), senza tuttavia insistere sull’unico tema capace di generare tensioni a sinistra e smuovere il M5S, cioè la presunta scarsa trasparenza dei conti?
4) perché far incasellare soltanto al ballottaggio, e non un paio di mesi prima, il magazine “Cambiamo Milano insieme”? Si tratta di un prodotto di 12 pagine con punto metallico, in tutto e per tutto simile a “Una storia italiana” del Berlusconi 2001. Uno strumento costoso, se lo pensiamo stampato in centinaia di migliaia di copie, e casomai utile per corroborare con pietre miliari biografiche di successo l’affidabilità della proposta politica (un po’ come Expo per Beppe), non tuttavia per innescare reazioni elettorali fondate, come la mobilitazione di secondo turno, sulla differenziazione da chi c’è dall’altra parte.
In sostanza, e in chiusura, l’apparenza è che Stefano Parisi abbia gestito il ballottaggio come la normale prosecuzione della propria campagna di primo turno, non come un contesto nuovo che regolarmente favorisce gli sfidanti.
Sarà stata la sicurezza di vincere offertagli dal cambio di traiettoria di determinati ambienti moderati. Forse la sicumera di un effetto underdog che compensasse qualunque rimobilitazione di sinistra. O ancora l’impressione che quello che stava accadendo potesse offrire un senso più pieno e corale anche a parole chiave classiche e indifferenziate, come “CAMBIAMENTO” e “INSIEME”, che Parisi ha scelto come spina dorsale del proprio messaggio e alle quali abbiamo contrapposto quelle di “SCELTA” e “FUTURO”, più attinenti al bivio elettorale del ballottaggio e più rappresentative di una delle qualità associate all’homo novus Beppe Sala: la capacità di proiettare Milano dove ancora non era stata capace di arrivare. Per quanto, di strada, se ne fosse già fatta parecchia, come abbiamo voluto ricordare al lancio della campagna con questo tributo video (firmato da Stefano Scarpiello) alla nostra città:
Se per un secondo volete accantonare i Pokemon e divertirvi in modo sano, provate il simulatore di ballottaggio del CISE. Niente male.
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