E anche stavolta, 5 anni dopo (nel 2016 lavorai come campaign manager del sindaco di Milano: ne ho scritto qui), l’abbiamo chiusa così. Con una vittoria.
Momentum è stata ingaggiata a supporto della campagna elettorale del sindaco Beppe Sala nella tornata 2021 con l’obiettivo di contribuire alla chiusura della partita con un vantaggio ampio.
Data per scontata la vittoria al primo turno, in virtù della disponibilità di un sindaco uscente ampiamente popolare, un contesto fortemente orientato al centrosinistra come la Milano post-2016 e una coalizione avversaria in difficoltà, il nostro lavoro si è imperniato, in particolare, su:
① analisi statistica e creazione di modelli di distribuzione delle risorse per estrapolare quanto più voto possibile dai territori maggiormente disponibili a supportare Beppe;
② identificazione dei target, pianificazione, impostazione e supervisione dell’advertising digitale su tutte le piattaforme;
③ impostazione e coordinamento del processo di Get Out The Vote (un tema fondamentale nel nostro lavoro per il presidente della Toscana Eugenio Giani: ne abbiamo scritto qui), cioè la spinta degli ultimi giorni per ampliare la distanza con l’avversario. Una spinta, parrebbe, ben assestata.
A livello personale, cosa che tradisce tanto l’esperienza, per carità, quanto l’età che avanza imperterrita, ho lavorato come advisor al campaign management, un’attestazione di fiducia della quale ringrazio, prima di tutti, la presidentessa del Comitato elettorale Maura Satta Flores e ovviamente il sindaco.
Oltre ai colleghi Momentum impegnati in altri territori e alle agenzie con le quali abbiamo collaborato con serietà e vero rispetto, c’è un amico e professionista al quale voglio dedicare subito un ringraziamento unico e che, fra le altre cose, ha anche firmato questo scatto con Beppe: Daniele Mascolo.
Tra febbraio 2020 e il voto di settembre dello stesso anno, Momentum, la società di consulenza per il consenso che ho lanciato nel 2018 con l’aiuto di alcuni colleghi, ha prestato i propri servizi per il candidato presidente della Toscana Eugenio Giani.
Per lui, come unica agenzia specializzata coinvolta e con l’affiancamento del suo staff storico, dell’amico Marco Agnoletti, impegnato sul fronte delle media relations nazionali, e di un gruppo di esponenti del Partito Democratico toscano di grande esperienza, abbiamo lavorato alla strategia generale e visiva, alla pianificazione, al web design e all’advertising digitale su più piattaforme.
Abbiamo descritto qui la sua campagna elettorale, con l’impegno di mettere da parte una volta per tutte il racconto magico che troppo spesso circola sui media alla fine di ogni campagna elettorale e di entrare, invece, a piedi pari nel contesto, in quello che i numeri ci hanno raccontato dall’inizio alla fine della campagna e nelle scelte tecniche puntuali che abbiamo intrapreso per sostenere la corsa di Eugenio fino alla vittoria.
L’obiettivo? Spazzare via la retorica dei guru, con le loro menzogne, e affermare quella della scienza della consulenza politica, invece.
Di mestiere faccio il titolare di una piccola società di comunicazione istituzionale e politica, quindi, legittimamente, potrei fregarmene di Chiara Ferragni. La crisi di reputazione che la coinvolge, però, è stata trattata finora con tanta improvvisazione metodologica che due parole mi sono sentito di scriverle anche io.
Il problema, se di problema si può parlare, è che branding e crisis management sono discipline molto rigorose, con basi tecniche fondamentali che oggi non vengono più trasferite da una generazione di operatori di comunicazione all’altra. Questa condivisione di conoscenza non si realizza più non soltanto all’interno dei corsi di studio dedicati (io mi sono stufato, dopo anni, di insegnare), ma neppure all’interno delle scuderie aziendali.
Provo quindi a offrire il mio contributo professionale attraverso qualche riflessione che magari non si legge sui giornali e che, al colpo d’occhio, non mi sembra neppure visibile nelle strategie di recovery in atto da parte di Ferragni.
Lo anticipo: è uno sforzo. Sia perché si tratta di cessione di un know how, seppure evocato brevemente e superficialmente, che oggi è in totale dismissione presso i colleghi, sia per la significativa, personale distanza che vivo rispetto al brand in questione. Capirete che dopo una vita lavorativa trascorsa nel mezzo di elezioni di Regioni e capoluoghi (qui trovate racconti più o meno datati delle campagne di Vincenzo De Luca, del primo Beppe Sala, di Eugenio Giani e anche del secondo Beppe Sala) e di progetti per istituzioni e grandi operatori della sanità, è davvero modesta la seduzione che può esercitare una marca commerciale.
In ogni caso, partiamo dalle basi metodologiche, che bastano e avanzano, provando a capire le principali tagliole nelle quali ha cacciato il piede la squadra di Ferragni.
Prima regola. Valutare i tratti d’immagine sui quali poggia il successo del brand e la loro decisività nella formazione dell’opinione.
Sono dati che Ferragni avrebbe dovuto acquisire con cadenza mensile attraverso analisi demoscopiche in tracking e non soltanto attraverso le -opache e arbitrarie- metriche social. Eppure, non sono sicuro che, sulle scrivanie dei suoi manager, ci siano 50 centimetri di report stampati.
Comunque, come possiamo definire il brand Chiara Ferragni? Un brand aspirazionale – valoriale? Di quelli che generano proiezioni positive nei sostenitori in virtù dell’associazione tra notorietà, human interest verso la persona e un po’ di valori alla spicciolata?
Sì, dai, facciamoci andare bene questa definizione. Del resto, il brand activism è esercitato con successo dai peggiori brand della moda e non solo (Lockheed Martin con la partecipazione al Pride, come da foto): funzionerà anche con una rappresentazione femminile dell’ideale della kalokagathìa, l’unità inscindibile tra piacevolezza estetica e qualità morali.
Insomma, se, come possiamo assumere, l’impero Ferragni si è poggiato fino a ieri sui pilastri della partecipazione emotiva, della compassione, della trasparenza, altro tratto indispensabile in un brand pubblico, allora il deterioramento associato all’affaire Balocco può creare un vuoto di sostegno pubblico enorme.
Basti pensare a come i vari Valentino Rossi se la sono cavata, nonostante casi di evasione fiscale eclatanti, senza un graffio: nessuno li giudicava per i loro valori civici. L’unica cosa che dovevano fare era andare veloci in moto, vincere, fare i simpatici sui media e con i fan. Non se lo sognavano neppure di imperniare la loro accettabilità pubblica sull’importanza di una dichiarazione onesta dei redditi.
E qui bisogna dirlo: se punti tutto sui valori e poi metti le mani nella marmellata, non sei esattamente il più furbo del circondario.
Seconda regola. Misurare la notorietà. Della vittima di crisi e dell’oggetto della crisi stessa. Quante -e quali- persone sanno di chi e di cosa si parla, per esempio, nel caso Balocco?
L’errore giù grave è credere che questa sia la dimensione primaria da considerare. Un passo che conduce a una gran quantità di false crisi (clienti che si agitano inutilmente per casi roboanti, ma che non scalfiscono i loro tratti d’immagine) o all’esplosione di quelle vere (comportamenti opportunistici che, se resi pubblici, possono determinare la fine della vita di una marca).
Eppure, questa variabile è la prima che si considera (l’estensione del buco) perché non si è praticato un corretto e assiduo assessment del peso dei tratti d’immagine nel corso del tempo. E perché reggere la pressione pubblica è faticoso: quando vivi di disintermediazione, ma, per onnipotenza, decidi anche di penetrare la sfera dei media tradizionali (andando a Sanremo), poi subisci la pressione congiunta di milioni di follower e di un sistema mediatico che volentieri ti farà la pelle. Per vendetta o, banalmente, per interesse giornalistico.
Questo produce un panico anti-strategico negli staff, ma ancora prima nei portavoce dei brand. Che, nel caso dei Ferragnez, sono i Ferragnez stessi. Vedono aprirsi una voragine sotto i loro piedi e, anziché pensare, agiscono.
Attività contro produttività.
Il buco si espande, tanto che la toppa non basta più.
Il video in tuta e con lo sguardo da vittima è un errore di calcolo gravissimo. Quello che sarebbe successo nei primi giorni dallo svelamento del problema era noto: Chiara Ferragni aveva già una notorietà che potremmo definire universale e le conversazioni online tra follower di varie gradazioni, allineati e non allineati, critici e dubbiosi, avrebbero senza dubbio prodotto il classico ‘blowing out of proportion’. Un’esplosione la cui estensione sarebbe stata incontrollabile. A quel punto, però, “stacce”, ti è scappata di mano.
Serviva un piano di gestione della crisi e di recupero del disastro. Prima. C’erano mesi, anni di tempo per stilarlo. Le variabili erano note, del resto: quando porti avanti operazioni di beneficenza che possono essere contestate, sai perfettamente che la stai facendo. E non sarai l’unica.
Terza regola (e chiudo, perché 60 minuti di lavoro su questa roba sono troppi). Il feedback.
Il dibattito che segue l’esplosione della crisi non è altro che il giro di ritorno dello stimolo di partenza, perché, ancorché passivo, l’erompere di una crisi è un atto di comunicazione del quale Ferragni è un mittente. Ed è infatti lei che subisce le reazioni del destinatario. È lei che deve esprimere un feedback ordinato e di adeguate proporzioni, nei tempi e nei modi corretti.
La follia infatti è stata tornare visibile, così a ridosso dell’innesco della crisi, con un video del quale sarebbe stata dibattuta pubblicamente ogni scelta.
Questa non è scienza missilistica: chiunque si sente in grado di parlare di trucco, di abbigliamento, di parole. E quindi chiunque lo farà.
E giù palate di carbone nella fornace della polemica, che, a questo punto, si sarebbe trascinata oltre il primo livello della notizia (la truffa, la multa).
Il video del 18 dicembre ha fatto ESPLODERE i volumi di ricerca Google. Diciamocelo: Chiara Ferragni non è mai stata un grande oggetto di intenzioni di ricerca, fino a Balocco. La polemica, così, anziché scemare, come sarebbe stato per esaurimento delle fonti di cronaca, si è risollevata:
Ci sarebbero molti altri punti di metodologia da toccare e verosimilmente un piccolo libro da scrivere, ma anche no. Che noia!
Certo, le domande restano. Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa dovrà fare Ferragni? È finita qui? (non credo, a giudicare dalla pioggia di beghe che le stanno cascando in capo).
Io ho le mie opinioni, perché da operatore (e docente, per diversi anni, di branding pubblico -poi mi sono scocciato-) non posso non averle, ma Chiara Ferragni ha sùbito ingaggiato, credo di aver letto, la società Community, quindi è giusto che siano loro a ragionare e produrre.
Una cosa è sicura: io non sarei mai intervenuto nella polemica sui mancati recapiti dei prodotti di e-commerce giustificando i ritardi con uno straordinario successo delle vendite, perché va bene difendere il bandwagon di un brand forte, va bene ostentare un successo inossidabile come supporting evidence dell’assenza di una crisi, va bene radicalizzare i tuoi sostenitori, ma, ancora una volta, qui sfugge la dimensione della polemica e sfuggono i tratti d’immagine indispensabili alla tenuta della marca. Che non sono la qualità dei prodotti o la tempestività delle consegne, evidentemente. Non esiste alcun baratto reputazione possibile tra il tratto della ‘performance’ e quello della ‘statura morale’. Anzi, più oggi si evidenzia la natura commerciale del brand Ferragni, più, parere mio, questo tenderà a soffrire.
Però, onestamente, credo di aver speso anche troppe energie per parlare di una delle tante marche, tra persone, aziende e nazioni, che non si fanno problemi a rafforzare la loro immagine pubblica facendo leva sui sentimenti umani più nobili come la compassione e la tolleranza.
Abbiamo vinto in Lombardia, in Toscana, in Emilia Romagna. Per il PD, per Forza Italia, per Liberi e Uguali, ma il mio primo pensiero, in questo voto, torna al collegio di Prato, dove ho messo piede la prima volta nel 2009 per la campagna dell’amico Roberto Cenni, candidato sindaco del capoluogo.
Con il centrodestra vincemmo il comune dopo 63 anni. La prima e unica volta. Fu il mio rito d’iniziazione alla carriera di consulente politico e l’avvio di un legame più profondo con quel territorio. Dopo quasi 10 anni sono tornato a Prato, pieno di emozione. Tolta Milano, è la città italiana alla quale sono più legato, da allora. Quella che conosco meglio. Sono tornato questa volta come amministratore d’azienda, per contribuire alla campagna di un altro amico, dal talento politico adamantino: Giorgio Silli, candidato del centrodestra all’uninominale di un collegio che aveva consegnato una fortuna importante a Matteo Renzi nel 2014.
La squadra Momentum è stata impiegata al gran completo, con l’aiuto straordinario sul territorio di Valentina Del Giudice, Francesca Arena, Simone Spezzano. E abbiamo vinto. In una campagna velocissima, ma di una tale intensità che è impossibile (e che sarebbe ingiusto) riassumere in un post. Questa è anche la dimostrazione che una consulenza politica di qualità serve a una cosa soltanto: ottimizzare. Ottimizzare un potenziale esistente che in primo luogo appartiene al candidato (un potenziale enorme, nel caso di Giorgio) e in secondo luogo al contesto. Se dovessi parlare di un dettaglio tecnico della campagna, tra quelli divulgabili, c’è lo spot da 59″ che, grazie a Francesca, abbiamo potuto cucinare in tempo record e che, oltre ad andare in tv, ha sbancato Facebook con un costo per fruizione irrisorio, segno che online la credibilità del candidato e la qualità del contenuto sono ancora più determinanti che offline.
Dall’esperienza sul campo mia, dell’art director Lorenzo Ravazzini, del digital strategist Fabio Larocca, dell’analista Filippo Annovi e del web designer e front end developer Andrea Patella, nasce Momentum, la prima società italiana di creazione del consenso (e del dissenso) che fonda la sua attività interamente sull’uso sapiente dei dati e delle tecniche e tecnologie di comunicazioni più aggiornate.
Il nostro team di lavoro può vantare oltre 100 campagne di comunicazione sviluppate in decine di anni di esperienza sul campo. Dal recentissimo Grand Slam messo a segno alle elezioni politiche, con ben 3 candidati di forze e regioni differenti eletti in Parlamento, alle esperienze sviluppate nelle campagne di Beppe Sala e Vincenzo De Luca, seguite con altre agenzie, per menzionare solamente gli impegni elettorali più recenti, e nella consulenza per gruppi di rappresentanza come le territoriali di Confindustria.
Il ricorso alla statistica e la padronanza nella creazione del messaggio e nella sua distribuzione su ogni canale rendono oggi la neonata Momentum il soggetto più interessante per qualunque operazione di microtargeting e positive/negative campaigning applicati alla comunicazione di pubblico interesse.
Ormai è chiaro. In 12 mesi riesco a scrivere uno, due post al massimo sul mio sito. Vivo murato di impegni, e questo è un bene. Impegni come le primarie di Parma, che, con quei fenomeni di Lorenzo Ravazzini, Armando Orlando, Filippo Annovi e tanti altri amici straordinari ci siamo portati a casa il 5 marzo assieme a un candidato bomber come Paolo Scarpa (www.paoloscarpasindaco.it).
Per fortuna che, se non scrivo io del nostro lavoro, almeno ci pensano gli amici giornalisti.
Qui la nostra intervista su la Repubblica Parma a poche ore dal risultato, schiacciante, del nostro candidato contro il favorito Dario Costi, candidato sostenuto dal Partito Democratico provinciale, dal senatore Giorgio Pagliari e da altri esponenti regionali, e contro Gentian Alimadhi.
LA SOSTANZA È TUTTO
Agli appassionati degli eventi di massa, delle convention americane. A chi si esalta quando Trump usa i Pokemon per attaccare Hillary. Ai fan delle risposte sbagliate degli avversari a falsi tweet e commenti. A voi, insomma, io lo devo dire: a Milano abbiamo vinto SENZA queste cose. A Milano non abbiamo raccolto attorno a un palco decine di migliaia di elettori e men che meno abbiamo riempito piazza Duomo. Ci siamo limitati a richiamare una base di 1.000/1.200 persone in pochi eventi e ci siamo preoccupati di mobilitare attivisti e simpatizzanti nelle operazioni di terra.
A Milano non abbiamo inventato video virali. Non siamo andati a caccia di like e condivisioni su scala nazionale. Non abbiamo disseminato di tagliole gli account degli avversari. Abbiamo invece rilanciato messaggi visivamente e contenutisticamente ricorrenti, targettizzando e re-targettizzando.
Così, mentre in altre parti d’Italia il centrosinistra incassava colpi più o meno letali, a Milano si conquistava una sudatissima vittoria contro l’uomo al quale Berlusconi ha appena assegnato la rinascita della propria area. Come? Continua a leggere
Tom Edmonds, per intenderci, è stato consulente di Reagan.
In less than a week now, I will be in Mexico City reporting about the way 2015 Gubernatorial elections have gone, with a bit of an in-depth analysis of the Campania case study (which you can find, in Italian only, here).
If you want to have a look at the Conference agenda, and understand how good I feel for having been invited over to speak, here you go.
I’m on my way, Mexico!
Chi più naviga, meno vota. Una cosa così.
Questo studio di un docente della Business School dell’Imperial College sembra associare a differenti comportamenti di navigazione, differenti comportamenti elettorali. E fin qui ce lo possiamo aspettare nella misura in cui la dieta mediale si compone inevitabilmente anche di Internet.
A colpire è la correlazione causale fra i due fattori descritta dallo studio: la diffusione della banda larga avrebbe offerto, in particolare alla cosiddetta low class, più intrattenimento. Quindi più distrazione. Quindi meno informazione. Continua a leggere
Ognuno ha interpretato il voto 2015 per servire i propri comodi.
Un eccitato centrodestra parla di un grande ritorno, mentre il malinconico centrosinistra tira fuori la serie storica del voto per dimostrare di essere ancora avanti nel numero di comuni amministrati.
Ambo le parti dicono il vero, ma ambo le parti decidono anche di non osservare quegli stessi risultati una volta privati del bias di fazione.
Milanese, 43 anni, 20 come consulente di comunicazione, fondatore della società Momentum.
Membro e speaker dell'International Association of Political Consultants e del Transatlantic Progressive Campaigns Committee, dal 2004 lavoro in Italia e all'estero in favore di partiti politici locali e nazionali, parlamentari, amministrazioni pubbliche, associazioni di rappresentanza, aziende.
Informativa ai sensi degli artt. 13, 23, 26, 130 D. Lgs. 196/2003.
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